di Valeria Lotti
Nonostante abbia fatto la coda per ben due volte, di cui una sotto la pioggia, non sono riuscita a vedere The Lighthouse, nuovo film di Robert Eggers nella Quinzaine des réalisateurs. Il perché di cotanta affluenza di pubblico e stampa è semplice: gli interpreti sono Willem Dafoe e Robert Pattinson, che da qualche anno ce la sta mettendo davvero tutta per uscire dal ruolo di vampiro idolo delle ragazzine. Ed erano presenti in sala insieme al regista, il che ha scatenato la fila più lunga in cui io mi sia mai trovata. I fortunati che sono riusciti a vederlo lo hanno commentato positivamente, e mi fa piacere, ma ovviamente non posso esprimermi. Quello che posso dire è che ho avuto almeno l’opportunità di incontrare uno dei due protagonisti, Willem Dafoe, grazie come sempre all’American Pavilion e alle attività interessanti che organizza. Questo posto è la mia ancora di salvezza, l’unico punto fermo in un festival in cui l’instabilità regna sovrana, una piccola oasi di pace affacciata sulla spiaggia.
Il signor Dafoe ha una grande esperienza cinematografica, avendo lavorato con registi del calibro di Oliver Stone, Wes Anderson e Lars Von Trier. Al nostro incontro si è mostrato simpatico e attento, intelligentemente affascinante. Ci ha spiegato che cosa significa per lui essere un attore: “Io sono materiale da plasmare. Mi piace attaccarmi alla visione di qualcun altro che non è necessariamente simile alla mia. È stimolante buttarmi verso quella visione in caduta libera perché non sto inseguendo uno scopo egoistico”.
Ha anche parlato di ciò che ha imparato interpretando Van Gogh, Pasolini e Gesù, che lui chiama “real life superheroes”: per esempio, leggere i saggi critici di Pasolini ha cambiato la sua percezione politica del mondo, e questo è qualcosa che si porterà dentro per sempre.
È davvero piacevole ascoltarlo raccontare aneddoti della sua vita fra teatro e cinema, e sebbene ciò non cancelli la mia delusione per le inutili file per The Lighthouse, sicuramente riesce a mitigarla.